Nuovi farmaci che lasciano sperare.
A cura di Davide Citterio – medico specializzando in formazione presso la S.C. Chirurgia Apparato Digerente e Trapianto Fegato
L’epatocarcinoma (HCC) rappresenta il tumore maligno più frequente del fegato ed è l’ottavo tipo di tumore solido più comune. Esso insorge generalmente nel contesto di una cirrosi epatica. La storia naturale di questo tipo di tumore è piuttosto peculiare in quanto tende a crescere per lungo tempo all’interno dell’organo di origine, il fegato, mentre normalmente possono passare anni prima che dia metastasi ai linfonodi o ad altri organi.
Per questa sua caratteristica la storia della cura di questa patologia è caratterizzata dal continuo sviluppo di nuove terapie di tipo loco-regionale: termo ablazione mediante alcolizzazione, radiofrequenza o microonde, chemioembolizzazione, radioembolizzazione, oltre a resezione chirurgica e trapianto di fegato. Grazie a tutte queste “armi” anche integrate tra loro è oggi possibile ottenere la guarigione nei casi più iniziali e comunque una lunga sopravvivenza globale rispetto a molte altre neoplasie dell’apparato digerente.
D’altra parte la storia dei trattamenti di tipo farmacologico dell’epatocarcinoma è costellata da insuccessi in quanto molti dei farmaci che sono risultati efficaci per altre neoplasie hanno dato risultati modesti quando sono stati applicati per la cura di questa patologia.
Il primo farmaco che abbia dimostrato un’efficacia nel migliorare la sopravvivenza dei pazienti affetti da epatocarcinoma è il Sorafenib.
Si tratta di un farmaco che si lega a delle molecole specifiche del tumore e presenti solo in minima parte nelle cellule sane. Il Sorafenib inibisce la funzione di queste molecole che sono indispensabili per la proliferazione delle cellule tumorali e in questo modo arresta la crescita del tumore. Appartiene quindi alla classe di farmaci a bersaglio molecolare, che sono i più recenti farmaci antitumorali che agiscono colpendo selettivamente le cellule tumorali risparmiando il più possibile quelle sane con un meccanismo simile a quello con cui un anticorpo si lega a uno specifico germe.
Questi “anticorpi contro il cancro” hanno quindi il vantaggio di essere molto potenti contro il tumore a fronte di una minore incidenza di effetti collaterali rispetto alle chemioterapie tradizionali.
Il Sorafenib ha dimostrato la sua efficacia nei pazienti con epatocarcinoma in fase avanzata in uno studio chiamato SHARP condotto a livello mondiale su 600 pazienti con HCC avanzato e buona funzione epatica dei quali 300 hanno ricevuto il farmaco e 300 hanno ricevuto un trattamento senza nessuna efficacia (placebo).
I pazienti che hanno ricevuto il farmaco hanno avuto una sopravvivenza mediamente superiore rispetto ai pazienti non trattati; i risultati di questo studio sono stati pubblicati nel 2008 su una delle riviste scientifiche più importanti del mondo, il New England Journal of Medicine.
Da allora questo farmaco è stato approvato per il suo uso in diversi paesi tra cui l’Italia per i casi avanzati, cioé quelli in cui il tumore ha invaso un grosso vaso sanguigno del fegato oppure coinvolge i linfonodi o altri organi (polmone, cervello, ossa) ed è l’unica terapia efficace per colpire queste cellule tumorali che hanno lasciato il fegato e hanno raggiunto altri tessuti.
Il farmaco, che è molto costoso ma grazie alla dimostrazione della sua efficacia viene pagato dal Servizio Sanitario Nazionale, viene dispensato esclusivamente in ospedale sotto controllo medico; si assume per bocca sotto forma di compresse due volte al giorno e può essere prescritto solo a pazienti con epatocarcinoma in fase avanzata e con buona funzione epatica (classe A secondo la classificazione di Child).
Gli effetti collaterali della terapia variano da individuo a individuo: alcuni pazienti accusano pochissimi effetti collaterali, altri, invece, devono sopportare conseguenze più pesanti.
Non necessariamente gli effetti collaterali colpiranno tutti coloro che si sottopongono al trattamento.
I sintomi più comuni sono: dolore e arrossamento di mani e piedi (la così detta “sindrome mano-piede”), modificazioni della cute, aumento della pressione arteriosa, diarrea, ulcere del cavo orale, nausea, vomito, astenia, ossia sensazione di fatica, e anoressia, ossia diminuzione dell’appetito.
In genere gli effetti collaterali riescono a essere ben gestiti con terapie specifiche o creme per la pelle ma in alcuni casi possono essere invalidanti e richiedere la riduzione del dosaggio del farmaco se non la sua sospensione.
Gli ottimi risultati raggiunti da questo farmaco hanno dato la spinta a nuove ricerche circa la sua applicabilità anche per altre classi di pazienti con epatocarcinoma integrandolo con le altre terapie a disposizione. Sono attualmente in corso studi per valutare l’efficacia del Sorafenib come terapia adiuvante, cioè per prevenire la recidiva dopo un trattamento curativo come la resezione chirurgica e l’ablazione, oppure in associazione alla chemioembolizzazione per i pazienti per cui è indicato questo trattamento. A breve saranno disponibili anche i risultati di questi studi ed è possibile che l’indicazione all’uso del Sorafenib venga ampliata anche a questi pazienti con lo scopo di prolungarne ulteriormente la sopravvivenza e migliorarne la qualità di vita.