Il padre: devo tutto a questa città. Il piccolo, del Togo, operato all’ Istituto Tumori Brigel è nato il 6 luglio scorso. A gennaio gli è stato diagnosticato un tumore al fegato.
Dicono che qui, quando muore un bambino, le dottoresse e i dottori bisogna lasciarli stare. Per un po’. Un bel po’. Giorni e giorni. Girarci al largo. Al massimo un saluto. Nient’ altro.
Nulla di più. Poi, per fortuna, capitano, e ne capitano tanti, bambini come Brigel, africano del Togo (si pronuncia Brigel, di questo nom e parleremo alla fine e, vedrete, vi torneranno i conti). Brigel è nato il 6 luglio. Secondogenito e fratello di Mariette, dieci anni. A gennaio, a Brigel diagnosticano un tumore al fegato di oltre due chili. Enorme, infinito, sproporzionato. Un mostro: si spingeva fino alla vescica.
Lunedì Brigel, otto mesi, è stato operato. Quattordici ore di intervento. Ieri siamo andati a trovarlo. Sulla maglietta aveva una scritta: «Aspettatemi, arrivo». All’ Istituto dei tumori l’hanno aspettato. È arrivato. E adesso lo adorano così tanto che, anche se è guarito e sta bene benone, o forse proprio per questo, vorrebbero non se ne andasse mai più. Naturalmente, sarà dimesso a giorni.
Il settimo piano – reparto di pediatria – è un posto dove si vedono Milano, le montagne, bambini con la testa rasata e mamme che appena il figlio malato guarda altrove magari concentrandosi su un giocattolo, si mettono le mani nei capelli, sul viso, o in borsa alla ricerca del cellulare per vedere se da fuori, dal mondo, s’ è fatto sentire qualcuno, qualcuno ha mandato un sms «come va?», e per sapere il marito di quanti minuti è in ritardo e se ha fatto la spesa e se è andato in banca e se ha pagato l’assicurazione, che loro non possono seguire nulla, son prigioniere. C’è un piccolino magro magro; sotto gli occhi, la pelle è di color violetto; il resto del viso, è bianchissimo.
C’è un alberello di cartone con sopra dei foglietti appesi. Su uno, scritto sotto Natale, si pregava Babbo Natale di «toglierm i questa cosa brutta che ho dentro». L’ha scritto un papà, si capisce, era la calligrafia di un adulto: è uguale, non fa differenza. Sono una ventina, i posti letto del settimo piano.
Sempre tutti occupati. Vincenzo Mazzaferro, direttore della Chirurgia generale 1, uno scienziato – per dire, nel mondo le regole scientifiche per il trapianto di fegato si chiamano Mazzaferro’s Criteria – di rara simpatia, e le due cose possono andare insieme, dice che le richieste di ricoveri aumentano. Dall’Italia.
E dall’estero. Est Europa, Sudamerica, e Africa. L’Africa di Brigel. Secondogenito di Honorine, 33 anni, e Lassey, 43 anni, Brigel è un bel tipo. Non dategli un dito che tanto non se lo prenderà: resterà lì sospeso nell’aria e voi rimarrete con un’espressione metà patetica e metà di supplica fin quando sua maestà non concederà l’onore di una toccatina al suddetto dito, sia pur istantanea. Paffuto, subito tornato in forma, Brigel dovrà, certo, esser sottoposto a controlli periodici.
Quattordici ore, avevamo detto, la durata dell’ operazione. «I genitori erano d’accordo sulla chemioterapia», dice Michela Casanova, «mentre l’intervento proprio non volevano si facesse. In Africa, la mortalità per interventi chirurgici è alta. E le persone hanno il terrore», dice la dottoressa Casanova, una bella dottoressa, oncologa specializzatasi in pediatria, che finito il turno dopo aver corso tra una camera e l’altra, e aver dispensato a ritmo elevatissimo carezze, consigli e soprattutto ascolto, molla gli zoccoli, inforca gli stivaletti e oplà, scappa via.
Dove va? «All’asilo di mio figlio. C’è la festa di primavera. Corro, inizia a un quarto alle quattro». Via di fretta, che son già le tre e mezza, adesso, e la signora Honorine, una di quelle africane dalla risata incontenibile e contagosa, s’è sdraiata sul letto accanto a Brigel. La mamma si fa un pisolino, il pargolo non chiude occhio, sta sveglio, e ha l’aria di chi vigila e monta la guardia. Questione di poco tempo ancora: due orette e arriverà il papà a dargli il cambio. Lassey a sua volta ha appena finito di dormire. Lavora di notte. Pulisce le metropolitane nelle rimesse. Lassey è arrivato a Milano otto anni fa. Il lavoro non sempre c’è. Va e viene. Specie di questi tempi. Tale è il terrore di perderlo, il lavoro, che aveva paura a chiedere al capo un permesso per la notte dell’operazione di Brigel. Niente, proprio non c’era verso. Proprio non ce la faceva, a inoltrare la richiesta al superiore. Finì che Mazzaferro chiamò il capo, che chiamò Lassey e gli disse: «Dai, vai».
Con Mazzaferro parliamo a lungo, e in numerosi passaggi viene fuori il discorso del decreto sicurezza, con il capitolo dei medici e della denuncia dei pazienti clandestini… «Come si fa, dico io. Come si può, mi domando io. C’è il medico. E c’è il paziente. Fine della storia. Il paziente è il paziente. Anzi, già che ci siamo: se non fosse venuto in Italia, se l’avessimo rispedito indietro, Brigel sarebbe morto. Così come morirebbero i bambini di altre, tante altre nazioni che non hanno strutture adeguate per certe malattie». Non che gli piaccia del tutto, quest’Italia, a Mazzaferro.
Oppure no: la ama a prescindere. Altrimenti, visto che aveva lavoro e posizione in America, non sarebbe rimpatriato. Poi, c’è chi verso l’Italia emigra nel vero senso. Nella squadra dei trapianti c’ è la tostissima argentina Jorgelina Coppa. Dopodiché incontriamo Maria Flores, del Guatemala. E, ancora, c’ è un ragazzo greco neo-assunto e una dottoressa dell’ India. E c’è Lassey dal Togo. Finalmente è arrivato. Dice: «Grazie Milano. Hai salvato mio figlio e la mia famiglia». Dice anche che l’ Africa è bella ma qui è meglio, e lo dice fissando Brigel.
A proposito, ci stavamo dimenticando. L’origine del nome. Allora, Lassey è innamorato del calcio, peraltro in Togo assai popolare, ed è follemente perso per un calciatore del passato, Hans-Peter Briegel. Capita, ognuno ha le sue fisse, le sua passioni, i suoi miti. Manca una «e», ma per il resto ci siamo. Brigel, appunto.
Il giocatore era un tedescone che negli anni Ottanta fece la fortuna del Verona campione d’Italia. Forza fisica, robusto, indomabile. Insomma, un portento della natura. Briegel & Brigel.
Andrea Galli
Tratto dal Corriere della Sera